di Angelika Overath
Il rapporto tra madre e figli è uno dei più sviscerati in letteratura.
La madre è spesso vista come la persona che ha maggiori responsabilità verso i figli, compresa quella di fornire gli strumenti per permettere alle sue creature di staccarsi da lei.
Nel racconto di Angelika Overath non è stato così: l’amore della madre per la figlia è estremo, totalizzante, claustrofobico. Ha dovuto lasciare la sua casa, il suo paese nei Sudeti per trasferirsi in Germania, dove si è sempre sentita straniera, insicura. La figlia Johanna diventa il perno attorno a cui ruota il suo mondo, ma questo crea per Johanna un legame soffocante, da cui l’unica soluzione è la fuga.
Il romanzo della giornalista tedesca Overath è il racconto di questo legame, scritto nella notte seguente al funerale della madre, quando gli eventi costringono a una brusca riapertura della porta del passato e tutti i dettagli, anche quelli più insignificanti, si riaffacciano alla mente della scrittrice.
La madre è morta, ma la casa vive ancora, perché una casa rappresenta la persona che l’ha abitata; ogni oggetto, sia per com’è sia per come e dove è collocato, rivela qualcosa della personalità di chi lo ha posseduto: la sfilata dei gatti di pezza sul divano, i centrini di pizzo, le tende, le piante, i quadri, gli abiti nell’armadio…
Gli episodi narrati, l’origine dei ricordi, i legami con la madre, la nonna “compagna di stanza” e il padre messo per anni in secondo piano, sono simili a quelli di molti lettori: ma è la sensibilità della descrizione, il sottile soffermarsi sulle associazioni dei ricordi agli stati psicologici, il vorticoso passare delle ore che quasi trascina a una lettura inarrestabile, il lento arrivo dell’alba che accompagna la fuoriuscita definitiva dall’appartamento (e dalla vita) della madre, che rendono il romanzo un unicum che ne merita la lettura.
Durante le lezioni di attività manuali e pratiche tutte le ragazzine della scuola erano insieme. […]
Una volta, nella quiete eterna di una mattinata dedicata al lavoro a maglia, l’insegnante aveva disposto sulla cattedra vari piccoli oggetti, e una dopo l’altra le ragazzine che avevano portato a termine le loro file blu e rosse con punto croce e punto a catenella avevano il permesso di presentarsi e di scegliere qualcosa. Un regalo inaspettato. Johanna, che era stata fra le prime, aveva subito contemplato gli oggetti a disposizione e preso per sé un foglio di cartoncino con le figure da ritagliare. Ma quando era rientrata al suo banco per guardarselo con maggiore attenzione aveva provato vergogna. Perché sulla cattedra aveva visto anche una stella alpina essiccata e aveva creduto di ricordare che alla madre piacessero le stelle alpine. Quindi era tornata rapidamente alla cattedra e aveva chiesto di poter cambiare quello che si era scelta. […]
A quel punto l’insegnante le si era rivolta con un sorriso e la aveva detto guardandola dritto negli occhi: Vuoi bene a tua madre, vero? Vuoi bene a tua madre, vero? Per Johanna era stato come se la maestra di quella scuola di campagna avesse pronunciato una frase in cinese. La domanda le sembrava del tutto inadeguata e superflua, immotivata, neanche le avessero chiesto se stesse respirando. E invece di rispondere con un allegro sì, aveva guardato la gentile maestra di attività manuali e pratiche con stupore, ma anche con un velo di imbarazzo e di sconcerto ed era tornata al posto con il suo fiorellino lanuginoso